Informativa relativa ai contributi pubblici ricevuti nell’anno 2020
Ai sensi della L. n. 124/2017, art. 1 co. 125 – 129 , modificata con L. n. 58/2019, pubblichiamo l’informativa relativa ai contributi pubblici ricevuti nell’anno solare 2020 da Cherimus CF 90024830920
Soggetto erogante: Comune di Perdaxius– P.I. 02710460920
Importo 350 €
Data di incasso 16/03/2020
Causale contributo: Contributo per la realizzazione del “Progetto Music@work” Senegal – Finanziato dalla Regione Sardegna con Legge Regionale 11 aprile 1996, n. 19
Soggetto erogante: Agenzia delle Entrate– P.I. 06363391001
Importo 1.138,82 €
Data di incasso 30/07/2020
Causale contributo: Quote cinque per mille Anno 2018 – 2017
Soggetto erogante: Agenzia delle Entrate– P.I. 06363391001
Importo 1.170,52 €
Data di incasso 06/10/2020
Causale contributo: Quote cinque per mille Anno 2019 – 2018
Ai
sensi della L. n. 124/2017, art.
1 co. 125 – 129 ,
modificata con L. n. 58/2019, pubblichiamo l’informativa relativa ai
contributi pubblici ricevuti nell’anno solare 2019 da Cherimus
CF 90024830920
Soggetto
erogante: Università
di Sassari – Dipartimento
di Scienze Umanistiche e Sociali – P.I.
00196350904
Importo
8.250 €
Data
di incasso 12/06/2019
Causale
contributo: Progetto Music@work Senegal – Finanziato dalla Regione
Sardegna con Legge Regionale 11 aprile 1996, n.
19
Soggetto
erogante: Università di
Sassari – Dipartimento
di Scienze Umanistiche e Sociali – P.I.
00196350904
Importo
8.250 €
Data
di incasso 09/08/2019
Causale
contributo: Progetto Music@work Senegal – Finanziato dalla Regione
Sardegna con Legge
Regionale 11 aprile 1996, n. 19
“Drawings for O.U.T. (office for urban transformation)” 2005, ink jet print. I used to spend most of my free time sketching some simple drawings on a pc using MS Paint. The drawings of this series illustrate Isola Art Center’s everyday life, the never-ending transformation of the space, the utopic vision, the exhibitions, the events, the people, but also the constant sense of precariousness, the cold, the fight against a massive gentrification project. I showed these drawings for the exhibition “tre visioni per la stecca degli artigiani” curated by Bert Theis and Alessandro di Giampietro.
Marco Colombaioni
TRINTAOTU
Ecco la fregola!
di Zia Maria, con Yassine Balbzioui e Matteo Rubbi
Il 29 novembre 2015, Yassine Balbzioui e Matteo Rubbi hanno chiesto assistenza a Zia Maria per imparare a fare sa fregua sarda per il progetto Côte à côte, curato da Susana Moliner Delgado di La Companyìa e da Emiliana Sabiu di Cherimus. Artisti e amici passati da Perdaxius nel corso degli anni hanno conosciuto Zia Maria e hanno assaggiato i suoi ravioli, i suoi fatti e fritti, le sue magnifiche pardule. Zia Maria era un pezzo di Cherimus. La riprese fatte allora da Yassine, ci sono oggi ancora più preziose. Zia Maria ci mancherai infinitamente…
TRINTASETI
L’incompreso
by Santo Tolone
TRINTASES
NINIENDI SU PIPPIEDDU
di Marco Colombaioni, Cleo Fariselli, Diego Perrone, Andrea Rossi, Matteo Rubbi, Emiliana Sabiu, Carlo Spiga
Un isuledda del natale passato. Nel 2009 la piccola chiesa romanico-pisana di San Giacomo a Perdaxius viene riaperta al pubblico dopo anni grazie ad un presepe realizzato con le scuole del paese. Cleo Fariselli realizza insieme ai bambini una stella cometa veramente mai vista prima; Marco Colombaioni e Matteo Rubbi costruiscono nelle aule i vari personaggi, umani e animali, e la volta celeste; Diego Perrone pensa invece che tutte le figure del presepe debbano avere delle orecchie di croccante commestibili.
Questo video è un reperto ritrovato nei nostri archivi, un servizio giornalistico di un telegiornale locale che documenta l’evento, rispuntato fuori magicamente. Buona visione e buone feste.
TRINTACINCU
AHAYU
di Teresa Alemán
TRINTACUATRU
A well prepared cocktail
di Ivan Buenader
TRINTATRES
Optimal Condition
di Scott Rogers
TRINTADUUS
So Long (Isola Art Center, Milano, 12 aprile 2007)
di Alek O.
TRINTUNU
Echta
di Matteo Visentin
non ha suolo al quale ancorarsi, né una posizione geografica fissa. è un isola vagabonda, che non prende spazio ma lo copre, come un ombra. ce la si potrebbe immaginare bene come un veliero capovolto, con lo scafo verso il cielo e le vele che si srotolano dagli alberi fino quasi a toccare terra; o come un cane dal pelo lungo. sulla sua pancia – o sulle sue vele, a seconda che si preferisca l’immagine del cane piuttosto che quella del veliero – si raccolgono gocce d’acqua provenienti dal mare che evaporando lasciano depositarsi grappoli di sale. questi riflettono la luce che s’infiltra dall’esterno sicché il tempo non si esprime nel susseguirsi di giorno e notte ma esiste come costante penombra. se nel descriverla risulta difficile non ricorrere a metafore, è perché, sull’isola, non c’è spazio per ragionamenti astratti. ogni cosa è nuda ed esiste per quello che è, senza bisogno di essere nascosta. l’aria che si respira è tiepida e soffice, come un abbraccio scambiato indossando un piumino invernale, e il suo odore simile a quello del cioccolato amaro. un aroma proprio di questo luogo e questo solamente, tanto intenso che sembra occupare uno spazio fisico. e in effetti si potrebbe dire che sia proprio questo a fare di echta il luogo che è: quando l’odore svanisce, s’è lasciata anche lei.
TRINTA
Su ballu ‘e s’arza
di Transhumanza
Transhumanza naschet dae su bisòngiu de ponner a pare sas biddas e is giassos de sartu de Sardìnnia cun sa chirca artìstica de is tempos nostros, boguende a pitzus un’avolotu intre traditzione e sperimentadura, autzende limbàgios e bisuras noos. Transhumanza est su giassu prus profetosu po nde pesare una retza de relatas intre quine si nch’andat, quine arribat e quine abarrat, una còntiga po fraigare mamentos de atòbiu e de cumpartzidura de costumàntzias artìsticas diferentes. Que a is pastores qui, mòvidos dae sas stajones qui detzident is bisòngios, traessant is logos in chirca de pabariles noos, TransHumanza est su sprigu de su bisòngiu naturale de tramudare e de ammesturare mundos diferentes. Su progetu est pentzadu que a unu caminu a tapas fatu de eventos minores, cun ammustros e intervènnidas site-specific in tretos bòidos e qui a su sòlitu sunt allargu dae ue benit fata s’arte.
Transhumanza nasce dall’esigenza di mettere in connessione le zone rurali della Sardegna e la ricerca artistica contemporanea, innescando un cortocircuito tra sperimentazione e tradizione, stimolando nuovi linguaggi e nuovi immaginari. Transhumanza è un luogo ideale dove attivare una rete di rapporti tra chi va, chi viene e chi resta, un pretesto per creare momenti di incontro e condivisione delle diverse pratiche artistiche. Come i pastori, mossi dal ciclo delle stagioni che ne determina i bisogni, attraversano i territori alla ricerca di nuovi pascoli, Transhumanza riflette l’impulso naturale a spostarsi, migrare e creare contaminazioni tra diversi mondi. Il progetto si sviluppa in un percorso per tappe costellato di piccoli eventi, esposizioni e interventi site-specific in spazi inutilizzati e solitamente lontani dai luoghi dell’arte.
BINTINOI
Elementare – L’isola della notte
di Amigdala
Elementare, è un’isola che risorge ogni sera per accogliere chi proviene dalle isole vicine o dal continente. Ci si arriva con galeoni speciali, fortezze di legno con vele e pennoni che ricordano quelle dei pirati di certe avventure fantastiche. Elementare è un’alleanza temporanea tra pubblico e artisti, chiamati a condividere insieme il tempo di una notte. In uno spazio attrezzato per il sonno prende forma una comunità provvisoria. Nell’Isola della notte gli attori eseguono un canto rivolto alla notte, come tempo di sospensione e sovvertimento.
L’Isuledda è ispirata alla produzione Elementare (2018) del collettivo Amigdala: http://bit.ly/2NMhKxK Immagine di Sara Garagnani Musica: Meike Clarelli Testi: Gabriele Dalla Barba Conduzione coro: Davide Fasulo Voci: Meike Clarelli, Elisabetta Dallargine, Vincenzo Destradis, Davide Fasulo, Fulvia Gasparini, Antonio Tavoni
BINTIOTU
moho en trozos de piel de aguacate (muffa su lembi di buccia di avocado)
di Luca Garino
BINTISETI
Backstage of an Island
di Miguel Palma
The work “Backstage of an Island” is based on the construction of a sculpture that resembles a tent but which, instead of being shaped like a pyramid or a semi-sphere, has the morphology of the island of São Miguel. Like a camping tent, it is a portable piece, easy to assemble and dismantle. This equipment consists of a wooden base, about two meters width and a cut that relates to the aerial view of the island of São Miguel. This base is lined with a waterproof and plain colored fabric that gives the illusion of the island’s morphology.
* * *
“Conta-se, aqui, que um dos medos estruturais na história do Arquipélago era o dos piratas. Outro seria o do isolamento. Ou seja, de movimentos invasivos à impossibilidade de evasão, a insularidade obrigaria a um estado de espírito de alerta e tensão constantes, algo que muito provavelmente define, no fluir de gerações, um carácter muito próprio aos habitantes destes pedaços de terra que, por sua vez, na sua condição vulcânica, já de si constituem pano de fundo suficiente para uma tensão invisível e insidiosa só ultrapassável pela rotinas da existência, das mais sublimes como o amor ou o instinto de preservação, às mais banais, como os repetidos gestos do quotidiano que maquinalmente erigem um tempo sem espessura dramática.”
Miguel von Hafe Pérez
BINTISES
Romance of Window Wipers
di Holly Fletcher & Diane Edwards
BINTICINCU
Isola Caterina
di Villa Caterina (Giulia Leone, Makika e Margherita Riva)
La quarantena, tre lumachine nel loro guscio, un corridoio, un microfono nel mezzo, un po’ di taglia e cuci et voilà!
Featuring Giulia Leone: trumpet, guitar, eletronics from distance Margherita Riva: pandeiro, jew’s harp Makika: sampling, launeddas, dissoneddas, bass
BINTICUATRU
Devi cambiare la tua vita (Du mußt dein Leben ändern)
di Andrea Rossi e Matteo Rubbi
BINTITRES
Scabèciu
di Arrogalla
Scabèciu
Insemola e friggi il pesce, poi fallo marinare in un sughetto con pomodoro, aglio e aceto. Aggiungi a tuo gusto tutte le spezie e gli odori che vuoi.
Produced and mixed by Francesco Medda Arrogalla at Codaruina StudioDrum by Pier Gavino Sedda (Tumbarinos de Gavoi) Electroneddas by Carlo Spiga Makika Guitars by Maurizio Marzo Jew harp, flute by Massimo Loriga Oud by Amin Makni Tama by Pape Ndiaye Voice by Emanuele “Lele” Pittoni (Ratapignata – Scudi prus a forti)
BINTIDUUS
Rien ne va plus
di Marco Colombaioni
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BINTUNU
You never know if the bees that are coming will pollinate you or kill you
di Real Madrid
BINTI
DOING NOTHING
di Isamit Morales
The following performance is an ode to pause; a silent song to life being life.
Tracklist
Side A
Interlude “Yo no quiero esa normalidad de regreso” (I don’t want that normality back!) Doing Nothing Doing Nothing – After of Before Something
Un segno di buon auspicio, una fioritura di ex-voto. Un viatico, sia per i vivi per uscire con equilibrio dalla quarantena, sia per i morti nell’omaggio di un fiore mancato. E per gli uni e per gli altri, una carezza.
A good omen, blossoming ex-voto. Sustenance, whether for the living to pass through the quarantine in serenity, or an offering for the flowerless dead. And for the one as for the other, an embrace.
DEXIOTU
The Natal Isles
di Alix Christie
DEXASETI
изуледда
di Carlo Spiga
Carlo Spiga “Makika”, Sa Tempesta, 2017 Testo: Paolo Mossa Video registrato nel 2015 nella Repubblica di Tuva (Russia)
Firma, firma! A ue fues? Clori bella, inoghe resta… Mira chi grave tempesta sun minattende sas nues. Inoghe solu has iscampu: firmadi, Clori inumana… Sa ’idda est troppu lontana, de percias nudu est su campu. Firma! Ohimè, ite lampu… No intendes ite tronu?
Fermati, fermati! Dove scappi? Bella Clori, resta qui… guarda che brutta tempesta stanno minacciando le nuvole. Solo qui trovi scampo: fermati, ninfa Clori… Il paese è troppo lontano, di rifugi è nudo il campo Fermati! Ohimè, che lampo… Non senti che tuono?
Stop, stop! Where are you running to? Beautiful Clori, stay here Look what a bad storm The clouds are threatening Only here you can escape: Stop, unearthly Cloris The town is too far, The field is bare of shelters Stop! Alas, what a flash … Can’t you hear that thunder?
SEIXI
Altaria
di Antoni Sotzu
S’isuledda de Altaria, è abitata da oggetti domestici, memorie, attese e prosperità. Un tappeto tondo li accoglie: ci sono custodi di liquidi e materia, c’è un tempo del deserto a tre vasi, un suono campestre ossidato, una spianata lapidea, la statua di una saggia testuggine, una lama a sostegno. Si ritrovano tutti qui, in questo altare. In quest’isola.
Me voglio fa’ ‘na casa ‘mmiez’ ’o mare di Gaetano Donizetti
Clavicembalo: Justin Messina Voce: Zeyn Joukhadar Brano registrato alla Fondazione Camargo il 7 maggio 2020
Me voglio fa’ ‘na casa ‘mmiez’ ’o mare Me voglio fa’ ‘na casa ‘mmiez’ ’o mare Fravecata de penne de pavune Fravecata de penne de pavune
D’oro e d’argiento li scaline fare D’oro e d’argiento li scaline fare E de pietre preziuse li barcune E de pietre preziuse li barcone
Quanno nannella mia se ne va a affacciare Quanno nannella mia se ne va a affacciare Ognuno dice ognuno dice Mo’ sponta lu sole
Me voglio fa’ ‘na casa ‘mmiez’ ’o mare by Gaetano Donizetti
Harpsichord: Justin Messina Voice: Zeyn Joukhadar Recoded at Camargo Foundation May 7th 2020
I want to build a house in the middle of the sea I want to build a house in the middle of the sea Made of peacock feathers Made of peacock feathers
(I want ) to make the steps of gold and silver (I want ) to make the steps of gold and silver And the balcony of precious stones And the balcony of precious stones
When my baby shows her face at the window When my baby shows her face at the window Everyone says, everyone says: Now the sun is rising!
È stato Cannolo che mi ha tirato fuori di casa, e mentre lui inseguiva tracce odorose, io inseguivo macchie di colore, e di ossigeno. In questa bolla densa e spessa, abbiamo visto quante cose interessanti succedono quando si è soli.
DEXI
L’ile des masques rouges
di Amy Sow
« (…) c’est un concept que j’ai développé depuis le début du confinement pour dire que les masques ne doivent pas seulement servir au coronavirus mais également à combattre les violences faites aux femmes. C’est pour cela j’ai créé les masques rouges que je porte moi même»
NOI
Trans heaven is a house full of flowers and no word for shame
di Zeyn Joukhadar
Il paradiso trans è una casa piena di fiori, dove la parola vergogna non esiste
di Zeyn Joukhadar
OTU
Motu-Hiti
Alice Vercesi
E così il virus è approdato persino sull’Isola di Pasqua. Un lembo di terra sperduto a chilometri di distanza da ogni costa.
La mia mamma giramondo ci è andata in vacanza l’anno scorso. Per quell’occasione le regalai un libro. In questi giorni l’ho preso in prestito.
«Raccolse nelle fessure di Motu-iti le penne dei gabbiani e le intrecciò, le incollò con la polpa del ta-ompi, vischioso e tenace, e si fece un grande copricapo leggero che metteva nelle ore più assolate del giorno e gli teneva fresca la testa come una piccolissima nuvola.» (Roberto Piumini, Motu-iti L’isola dei gabbiani)
And so the virus even landed on Easter Island. A remote strip of land miles away from any coast.
My mom went on vacation there last year. For the occasionI gave her a book. These days I borrowed it.
“He collected the feathers of the seagulls in the crevices of Motu-iti, he braided and glued them with the pulp of the ta-ompi, slimy and tenacious, and he made himself a large light headgear to put on during the sunniest hours of the day, keeping his head cool like a very small cloud”. (Roberto Piumini, Motu-iti L’isola dei gabbiani)
Immagini da Calendario 2019
SETI
Scuola di Rock
Il Tempo dell’Oscurità
Il Tempo dell’Oscurità è una band formata da cinque amici, Edoardo (voce e chitarra), Ginevra (tastiere), Matilde (chitarra), Alice (basso) e Carlotta (batteria).
I I.T.d.O. si caratterizzano per un sound molto rock che guarda anche alla melodia, con riferimenti che vanno dai Deep Purple ai Kiss, senza disdegnare sferzate rumoristiche alla Sonic Youth (benché non li conoscano). Sul palco la band da il meglio di sé con un apparato performativo fatto di linguacce, corna e artigli che si elevano al cielo.
“Scuola di Rock” è un omaggio al Rock, come potenza espressiva e collettore di amicizia. Il brano vede due guest, oltre alla formazione classica si alternano ben due batteristi, Carlo e Desirée. Il brano è stato registrato e mixato da Makika. Il Tempo dell’Oscurità è una band nata all’interno dei laboratori di musica dell’ Exmè di Pirri.
Il Tempo dell’Oscurità (“The time of Darkness”) is a rock band formed by five friends: Edoardo -vocals and guitar, Ginevra -keyboards, Matilde -guitar, Alice -bass- and Carlotta – drums. I.T.d.O. influences include Deep Purple to Kiss, and Sonic Youth (even if they have no idea who they are). On stage the band is at their best, using a performance apparatus made of tongues, horns and claws that rises to the sky.
“School of Rock” is a tribute to Rock, as an expressive power and a catalyst of friendships. The song featured two guest artists, in addition to the usual line-up there are two drummers, Carlo and Desirée. The song was recorded and mixed by Makika. Il Tempo dell’Oscurità is a band born inside the music workshops of Pirri’s Exmè.
SES
Conchiglia
di Leonardo Chiappini
CINCU
CUATRU
Social distance child games
by Alexandra Collins
TRES
JAZEERE
di Ibrahim Nehme
my jazeere sits on solid grounds. there are books written by women about women, there is poetry, there are love letters, there are French lessons, there is a book I want to let go of, there are old notes and new ideas, there are independent magazines and long forgotten zines. on my jazeere, i stand on giant shoulders. here, all is well.
La mia jazeere poggia su solide basi. Ci sono libri scritti da donne sulle donne, c’è poesia, ci sono lettere d’amore, ci sono lezioni di francese, c’è un libro che voglio lasciare andare, ci sono vecchie note e nuove idee, ci sono riviste indipendenti e zines a lungo dimenticate. Nella mia jazeere, sto sulle spalle di un gigante. Qui, va tutto bene.
DUUS
Aslema Beslama
dal progetto So Close, di Mass’art (Tunis) e Cherimus (Perdaxius)
Musicisti: Aymen Makni, violino e voce; Amin Makni, oud e voce; Maurizio Marzo: chitarra; Francesco Medda “Arrogalla”, computer e dubbingSoundCloud
The game Deadlines and Dragons is an initiative of Common Places: new imaginaries for European peripheries, a project by Cherimus, LaFundició and Prostoroz that aims at sharing and reflecting on situated cultural practices that put play, conviviality and grassroots urban regeneration at the center to boost the autonomy and critical capacity of its residents to collectively build resistances and new imaginaries that break the stigmatization of peripheral territories.
Il primo concerto del nuovo gruppo Deggo Yëggo è appena finito e ancora sento sulla mia pelle tutti i graffi, i salti, i gesti, i colpi, il ritmo folle, tutta la forza buttata fuori di getto nel corso di otto canzoni. La magia è ancora sospesa per l’aria, siamo ancora tutti insieme nel cortile affollato di Kër Thiossane: la musica non si è mai interrotta del tutto, ci tiene ancora legati a sé, ci tiene forte. È bastata un’ora soltanto per veder fiorire Deggo Yëggo, tutti noi giù per terra e le stelle alte nel cielo, lo scorpione e il suo cuore, Antares, fulgenti.
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Tutto è cominciato cinque mesi fa, anzi, per essere precisi tutto ha avuto inizio otto anni fa. Qui, a Kër Thiossane, nel suo arioso cortile accarezzato dalle fronde di un immenso mango, è nata la band sardo-senegalese Chadal, che nel 2011 ha sparso i frutti del suo intenso rendez-vous musicale in una tournée che ha toccato il Senegal e l’Italia.
L’obiettivo di Chadal, progetto scritto da Cherimus e realizzato in partnership con Kër Thiossane, era di mettere in discussione la dinamica di isolamento e di marginalizzazione sociale che la comunità senegalese soffre in Italia e in Sardegna; a fronte di alcune importanti ma isolate iniziative di collaborazione e di scambio infatti la comunità senegalese è prevalentemente associata dalla maggior parte degli italiani allo svolgimento di lavori umili, spesso ai margini del mercato del lavoro. Anche artisticamente, la musica senegalese, così come quella sarda del resto, per il pubblico generalista italiano ed europeo è ancora largamente relegata a pochi e vecchi stereotipi che non rendono giustizia alla vitalità e ricchezza di una tradizione artistica e musicale antichissima che si perde nella notte dei tempi.
In questo e in tanto altro le due tradizioni musicali si somigliano e ricordo che sognavamo di poter vedere cosa sarebbe potuto capitare da un incontro tra musicisti sardi e senegalesi: la musica avrebbe potuto far emergere e amplificare una voce presente sul territorio ma di fatto esclusa e muta e questo attraverso un dialogo musicale tutto da inventare e costruire.
Il progetto Chadal ha portato alcuni musicisti sardi a confrontarsi direttamente con la complessità e la storia della musica senegalese. Ha creduto che questo incontro dovesse avvenire a Dakar, in Senegal, e che la musica andasse incisa lì, che la tournée di questa nuova collaborazione musicale avrebbe dovuto avere Dakar come prima data per poi volare in Sardegna e portare nella stesse piazze la comunità senegalese che da anni vive in Sardegna e quella sarda, a cantare e ballare insieme. La band è poi riuscita a contagiare con la sua energia anche la più numerosa comunità senegalese d’Italia, quella lombarda, in collaborazione con la quale il gruppo ha suonato con successo al festival del Carroponte di Sesto San Giovanni, chiudendo così il cerchio musicale cominciato a Dakar.
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Oggi, dalla stessa collaborazione tra Sardegna e Senegal, è nata la band Deggo Yëggo. Otto anni dopo Kër Thiossane, che in italiano vuol dire casa della tradizione, è la stessa casa accogliente di sempre, dove artisti e musicisti da tutto il mondo si incontrano e lavorano insieme, dove le tantissime realtà culturali di Dakar si danno appuntamento.
Gli obiettivi di Deggo Yëggo sono gli stessi del primo progetto, gli stessi, solo tremendamente più urgenti, più necessari nel periodo storico che stiamo vivendo. Il progetto mette la voce di nuovi talenti musicali al centro del discorso, e parlando di voce, mi riferisco specialmente a quella di Kalsoum, cantautrice senegalese nata e cresciuta artisticamente nei banlieue di Dakar: le parole di Deggo Yëggo sono le sue, sua la voce narrante.
Mentre stavo cominciando ad abbozzare questo testo, nei giorni precedenti il concerto, la musica di Deggo Yëggo, aveva già messo sottosopra la sala prove di Kër Thiossane, facendo sobbalzare anche me, lì seduto a pochi passi. Kalsoum cantava e danzava senza sosta circondata dagli altri musicisti del gruppo: Pape Diop e Pape Ndiaye, percussionisti dell’Orchestre National du Sénégal, Pierpaolo Vacca, organettista di Ovodda, nella regione sarda della Barbagia e Massimo Congiu, suonatore di launeddas di Quartu Sant’Elena, vicino a Cagliari. Descrivere la bellezza di quello che stava accadendo sotto i miei occhi, mi fa sentire inadeguato: la tama di Pape Ndiaye, ancorata alla spalla e così vicina al cuore: i suoi battiti sferzano l’aria, le sue scale minuziose corrono su e giù a perdifiato; l’organetto di Pierpaolo Vacca è un abbraccio ampio, generoso, che offre spazio, quanto ne serve e se ne vuole; le launeddas di Massimo Congiu sono vele cariche di vento forte, velocità e spinta continua; il sabar di Pape Diop àncora il flusso, tiene la musica, non la fa volare via. I musicisti del nuovo gruppo suonano in cerchio, si guardano, musica fatta con gli occhi, prendersi e lasciarsi, mai del tutto. La voce di Kalsoum si muove senza difficoltà in questo nuovo paesaggio di suoni, scuotendo tutto, un moto tellurico, ogni parola uno spigolo, un pezzo di corteccia, una radice, un sasso. Canta in Wolof, Diola, Inglese e Francese, canta e compone le parole insieme, carta e penna alla mano.
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La forza di un incontro riuscito si riverbera sempre velocemente tutt’intorno, come i cerchi attorno ad un sassolino lanciato nell’acqua immobile. Il nome Deggo Yëggo è uno di questi cerchi perfetti: è la traslitterazione di due parole che in italiano non trovano corrispondenza diretta, che abitano più sensi, che sfumano e scivolano via. Deggo vuol dire stare insieme, ascoltarsi, capirsi, essere in armonia, cosa non semplice e da non dare mai per scontata; Yëggo significa condivisione, dice Kalsoum, di una lotta quotidiana, significa prendere posizione insieme, schierarsi e agire per fare cambiare le cose. Deggo e Yëggo, armonia e azione, perché la musica è già azione, porta con sé messaggi e li mette in atto. La musica descrive il nostro rapporto con il mondo e mentre fa questo lo rifà daccapo, agisce.
Nello stesso spirito, il logo della band è nato da una collaborazione con la street artist e attivista Zenixx; Deggo Yëggo è una vera e propria tag composta da linee curve che si rincorrono all’infinito.
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Le canzoni
Deggo Yëggo è anche il titolo della canzone scelta per aprire il concerto, un brano solare dove l’organetto di Pierpaolo disegna un motivo ballabile e imprendibile tanto il ritmo è serrato, che trascina l’intero gruppo in un crescendo di intensità che si scioglie di colpo solo alla fine. Tutto il pubblico è invitato con forza a unirsi alla festa. “Oüie con lacomì!”, canta Kalsoum in Diola, lingua del sud-est del Senegal, vieni qui con noi! “Fi deugeurna!”, continua in Wolof, Qui è forte!, “Deggo e Yëggo!” Insieme e in armonia! Così comincia tutto, inseguendo il moto folle, acrobatico, senza fine, dell’organetto di Pierpaolo Vacca.
In Maman, Kalsoum canta sul motivo dei Goccius sardi, l’antica melodia sarda utilizzata per intonare preghiere alla madonna e ai santi, così come per accompagnare canti profani o di protesta popolare come il celebre Procurad’e moderare. Kalsoum alterna canto e declamazione, mostrando la versatilità della sua voce, ci parla di sua madre e di sé stessa, celebra chi affronta una gravidanza, dà alla luce e cresce un bambino dando tutta sé stessa; la cantautrice mette al centro chi la società ancora squalifica, marginalizza e colonizza. La sua voce, graffia e sovverte questo ordine sociale, con rabbia ci trasmette il suo no all’umiliazione riservata a chi, dice Kalsoum, porta anche i presidenti e i potenti del mondo in grembo. La cantautrice reclama il suo diritto a prendersi cura di sua madre, di accudirla, diritto tradizionalmente appannaggio dei figli maschi.
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Music, introdotta da un motivo brillante dell’organetto di Pierpaolo Vacca, è un inno d’amore alla musica, la musica che, dice Kalsoum, permette alla sua voce di esistere e resistere, di esprimersi e farsi spazio, di abbracciare il mondo: “Music, I am alive!”, si ripete più volte nella canzone. Nel finale del brano la tama di Pape Ndiaye, chiama uno dopo l’altro gli strumenti a rispondere al suo richiamo intessendo una serie fulminea di botta e risposta: Music, una pluralità di voci che danzano insieme leggere.
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Touche pas là, comincia con le launeddas di Massimo Congiu, che fanno spiccare in volo il gruppo prima di lasciare il testimone alla voce di Kalsoum, una voce subito arrabbiata, ruvida. Kalsoum prende quasi a cazzotti con la voce e con gli occhi l’immaginario interlocutore della canzone, che si trova nel tunnel della droga, lo mette in guardia, non gli dà tregua, come se il tempo fosse agli sgoccioli. Il discorso si spezza, si flette, salta gli ostacoli, non si guarda indietro. È forse il pezzo con il ritmo più serrato di tutto l’album, il più insostenibile; toccata la massima tensione il nodo alla gola si scioglie, si ritorna a respirare, in un momento di puro lirismo, un dialogo tra le sole voce e launeddas, un lungo duetto, dove la rabbia si trasforma in preghiera sospesa, una lenta invocazione, un lamento rotto solo dalla ripresa del ritmo insostenibile della prima parte, reso ancora più fitto e inestricabile dalla tama di Pape Ndiaye, un crescendo strumentale fino alla fine.
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In Terrorisme, l’organetto effettato di Pierpaolo Vacca disegna uno spazio dilatato, morbido, dalla respirazione lentissima, le launeddas vi si adagiano. Kalsoum recita su questa base senza mai spingere troppo la voce, poi la tensione sale ed ecco un ampio declamato; è un dialogo senza interlocutore, poche domande secche, sorprese, preoccupate: Dove vai? Ti unisci a loro?Non c’è alcun futuro lì! ti promettono il paradiso, di morire martire, ma vogliono solo il potere, e solo la morte li fermerà, non li ascoltare, non li avvicinare! Costruisci il tuo avvenire nell’amore. La tama appare a tratti, piccole isole in un mare calmo, quasi immobile. Nella parte finale, la più lirica, Kalsoum canta, quasi un lamento, l’impossibilità di sovvertire lo stato delle cose.
Fethe Tundu è l’unico brano dell’album completamente strumentale, omaggio al ballo tondo sardo, diffuso in tutta l’isola. Il ritmo sérère del sabar di Pape Diop, così simile a quello del ballo sardo, non fa alcuna fatica a prendere parte alla danza e così quello della tama di Pape Ndiaye, insegue e impreziosisce la serratissima trama strumentale. Il pezzo offre un momento di pausa, ci sentiamo per un attimo nel bel mezzo di una piazza in festa.
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Il tema di Punk Priogu è una variazione della melodia tradizionale per launeddas Is Priorisseddas, che accompagna le feste annuali del santo partono nella Trexenta, e che prende il nome dalle Priorisseddas, le fanciulle che accompagnano nel corteo il priore e la priora, figure di riferimento di queste feste sarde. Su questo motivo nasce in un batter d’occhio il testo per mano di Kalsoum; dall’esperienza diretta della periferia di Dakar, dove è cresciuta la cantautrice, prende forma questo canto di resistenza, di lotta quotidiana per reclamare sé stessi, per non arrendersi al mondo che costantemente vuole sminuirti, come la pulce (Priogu) del titolo, controllarti, sfruttarti, buttarti via. Qui la pulce è punk, mette in scacco la musica la accelera fino a farla deragliare: si riprende sé stessa con forza. “Hard Life.”
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Thiow Li, il brusio della città, sotterraneo, passa di bocca in bocca, cresce, si diffonde, si moltiplica, si articola. “Thiow li, Thiow lì, Thiow lì,” la gente parla per strada, allo scoperto, il vento sta cambiando che cambia direzione, si prepara una tempesta, si prepara una rivoluzione: Uniamoci e agiamo insieme nella verità / Se vogliamo che il nostro paese fiorisca / Finitela con la gelosia e l’ipocrisia / Se vogliamo vincere agire insieme è più fruttuoso. È ancora Deggo Yëggo, armonia e azione, Kalsoum rappa, la tama segue la voce come un segugio, Kalsoum chiama, tama risponde, il quartiere le copre le spalle, cammina con lei, il brusio cresce, valica strade, supera confini. Uno stop and go, improvviso, e le voci della strada si fanno moltitudine: un crescendo dell’organetto di Pierpaolo Vacca e delle launeddas di Massimo Congiu rafforzato dalle percussioni di Pape Ndiaye, e di Pape Diop chiudono la canzone e l’album.
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ll primo concerto di Deggo Yëggo è appena finito, gli applausi sono alle spalle, la notte è appena cominciata, Dakar non ha mai smesso di cantare e ballare, per le strade, sui tetti, sulle spiagge, non ha mai smesso di protrarsi con forza nell’oceano, di arrivare il più lontano possibile a confrontarsi con il moto eterno dell’ignoto. La prossima volta che Deggo Yëggo salirà su un palco sarà in Sardegna, terra di siccità e tempeste, isola in mezzo al mare. Lassù nel mar Mediterraneo saremo ancora una volta, con forza, Deggo e Yëggo
“Sono arrivati! Vieni, fai presto!” Corro agli arrivi internazionali, extra Shengen. Trovo Carlo già abbracciato stretto a Pape Diop ed Emiliana a Kalsoum, Pape Ndiaye sorride di felicità. Bagagli e strumenti musicali sono accatastati sui carrelli. Partiti la sera prima da Dakar i musicisti sono finalmente arrivati a Cagliari: è la conclusione di una piccola odissea.
Noi di Cherimus e i musicisti sardi, cittadini italiani, siamo andati a Dakar senza visto sul passaporto, senza dover pensare di richiedere lettere di invito, garanzie, assicurazioni, prenotare biglietti aerei di andata e di ritorno, fissare colloqui in ambasciata, subire lunghe attese e aspettarci rifiuti. Noi siamo partiti pensando di non dimenticare il dentifricio e verificando la presenza nelle nostre tasche del passaporto.
Alla prima richiesta di visto il consolato italiano a Dakar ha negato tutti i visti dei musicisti senegalesi nonostante il progetto fosse finanziato e sostenuto dalla Regione Sardegna. Tutto il programma veniva rinviato: nuova documentazione da produrre velocemente, nuove tasse da pagare, nuovi colloqui, nuove attese, nuove prenotazioni aeree, più costose.
Al secondo tentativo e ormai in grande ritardo, i visti vengono concessi.
Poi ci si è messa la sfortuna. Il giorno della partenza a Dakar, la circolazione è in tilt e il veicolo che doveva portare i musicisti è andato in panne sulla via dell’aeroporto. Volo perso. La notizia ci arriva a tarda notte. Da Perdaxius ci mettiamo subito in contatto con Dakar: notte insonne e un giorno speso a fare la conta degli spiccioli rimasti nel budget per riacquistare i voli.
L’arrivo di Kalsoum, Pape Ndiaye e Pape Diop rompe un brutto incantesimo. Ci abbracciamo lungamente e ridiamo di gioia, alle porte deserte degli arrivi extra Shengen. In quel momento ripenso ad un altro abbraccio, una sera di 8 anni fa sempre ad Elmas. Aliou Ndiaye, Alassane Cissé, Bah Moody, Sidi Koita, Baka Cissoko: l’anima senegalese di Chadal, gruppo musicale nato appena qualche mese prima, sbarcava finalmente in Sardegna. Avrebbero suonato di nuovo con Alberto Balia, Matteo Scano e Riccardo Pittau, l’anima sarda del gruppo, su e giù per la Sardegna e poi fino a Milano, al Carroponte di Sesto San Giovanni. Quell’agosto del 2011 sarebbe stato indimenticabile per tutti e Bah Moody ci avrebbe scritto una canzone di successo.
Deggo Yëggo non sarebbe potuto esistere senza Chadal, e Chadal sarebbe rimasto troppo solo senza i Deggo Yëggo.
Il viaggio dall’aeroporto a Perdaxius incanta Pape Ndiaye. Il sole di settembre illumina tutto, i colori delle colline squillano. I gialli, gli ocra, gli argenti, i verdi agitati dal vento: Pape non stacca gli occhi dal finestrino. “Dio le ha fatte proprio belle quelle colline”, ci ripete in francese.
Appena arrivati dalla popolosissima Dakar, l’impatto con le strade deserte di Perdaxius è immediato. Pape Diop ci scherza subito su. “Dov’è la gente? Dove sono tutti?” fa a Kalsoum, girando incredulo la testa a destra e a sinistra con l’abilità di un consumato commediante e facendoci ridere a crepapelle.
8 settembre 2017, Monte Gonare
Sembra Dante, la selva oscura e la collina illuminata dal sole, ma siamo circa 170 anni prima dall’uscita del poema. Secondo la leggenda, la nave del giudice Gonario di Torres, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta e ormai in vista del golfo di Orosei, incappa in una terribile tempesta. La situazione è disperata e Gonario, cercando la terra all’orizzonte, vede un’alta montagna illuminata da un raggio di sole che si fa largo tra le nubi oscure: per Gonario è un segno divino; il giudice si affida alla Madonna e la nave si salva miracolosamente. Gonario va subito alla ricerca dal monte dove vuole adempiere al voto fatto: costruire un santuario su quella cima luminosa. Nel corso dell’ascesa incontra una madre con un bimbo tra le braccia che lo guida e che poco prima della cima si ferma per riprendere fiato, stendendosi nell’incavo di una roccia e posando il bimbo sul palmo liscio di una pietra. Gonario prosegue e raggiunge la vetta ma non riuscirà più a trovare quella madre che si convince essere la Madonna in persona con Gesù bambino in braccio. Il monte prenderà il nome del giudice, “Monte Gonare”, l’incavo dove la donna si è fermata a cercare un po’ di ristoro e la culla naturale dove ha adagiato il neonato diventeranno nei secoli oggetto di culto e venerazione. Ogni anno, l’8 di settembre, gli abitanti di Orani, Sarule e di tutto il circondario, vanno in pellegrinaggio al santuario sulla vetta del monte. Nei corso dei secoli intorno alla chiesa di sono sviluppate le cumbessias, casette dove i pellegrini alloggiano nei nove giorni precedenti la Festa.
Secoli e secoli dopo la mitica ascensione di Gonario, in quello stesso ultimo spicchio d’estate e su quello stesso monte impervio i Deggo Yëggo si sarebbero esibiti la prima volta in Sardegna e per la prima volta al completo.
E’ un esperimento, un azzardo, fortemente voluto dal Museo Nivola di Orani e dai comitati che organizzano la festa. Ci dicono che è la prima volta che una band suona alla festa di Monte Gonare. Prima del concerto siamo tutti invitati speciali in una delle cumbessias; ci vengono offerti vassoi di pistoccus e ogni genere di bevande. Pape Diop scherza con un Monsignore che non smette di sorridere e di assecondare Pape e rilanciare: una coppia comica affiatata. Tra le bancarelle lungo la via incontriamo alcuni venditori senegalesi che vivono in Sardegna. Per i musicisti è una bella sorpresa; Pape Diop e Kalsoum si trattengono volentieri con loro parlando in wolof, chiedendo “come va? di dove siete?” Ridono, scherzano e fanno acquisti. Kalsoum mi si avvicina e mi dice raggiante: “la gente qui è come a Dakar, mi sento in famiglia.”
Il sole è ancora alto nel cielo quando tutti insieme ci inerpichiamo nelle strette vie del sentiero nel mezzo di una folla di fedeli che salgono e scendono. Dopo un po’ arriviamo anche noi alla cima -menzione speciale per Pape Diop, eroico, in babbucce sulle rocce-, tra alberi di leccio, castagno e roverelle, oltre i quali si stende un paesaggio sterminato. Sembra di stare sul tetto dell’intera isola. Da la sopra si vede il golfo di Orosei e quello di Oristano: la vista sembra estendersi all’infinito. Il santuario è un drago di pietra accucciato sul monte dalla notte dei tempi; intorno c’è solo un sentiero stretto che si affaccia a picco sul mondo.
Poco prima del tramonto il cielo è blu, l’aria fresca fa ondeggiare le bancarelle, il palco è pronto e attrezzato, tanta gente si avvicina. Ci sarà un concerto, questo è chiaro; è invece ancora una incognita cosa suoneranno questi sei musicisti. Kalsoum è sul palco vestita a festa sotto una felpa calda: il freddo comincia a mordere, ma quando il concerto comincia non ci si bada più. Terrorism, Deggo Yëggo, Maman, Punk Priogu, Music, Touche pas là, le canzoni saltano fuori una dopo l’altra: la voce di Kalsoum, l’organetto di Pierpaolo, la Tama di Pape Ndiaye, le launeddas di Massimo, il sabar di Pape Diop, e il computer di Frantziscu, scuotono l’aria di sa Corte e si spargono. Da lì sopra, lo immaginiamo tutti, si può arrivare ovunque, la musica vola e zigzaga veloce tra l’erba astragola, l’elicriso, le orchidee selvatiche, la peonia e le rose di montagna.
Quando arriva il turno del Feche Tundu, ballo sardo rivisitato con tama e sabar, il pubblico, disperso dal freddo sempre più pungente e sotto l’impulso di Kalsoum, si raccoglie a gruppetti di due tre persone per volta e dà forma a un cerchio danzante che si allarga in tutta sa corte. Sono forse i dieci minuti più emozionanti del concerto: il cielo rosso fuoco è davanti agli occhi dei musicisti.
L’ultimo brano della scaletta, Tcow Li, riporta per un momento la voce di Kalsoum e il chiacchiericcio delle strade di Dakar al centro della scena, poi il concerto si chiude, quando tutto intorno a noi è color blu crepuscolo. Le persone rimaste si ritrovano per una birra. Per scaldarsi si canta ancora, a tenore, Kalsoum tutt’orecchi ad ascoltare.
12 settembre, Cagliari
C’è la Televisione a Cagliari. Una telecamera di quelle più grandi del normale è ancorata ad un cavalletto anche lui più grosso del normale. La giornalista della RAI Chiara Zammitti mi guarda negli occhi più volte durante il concerto come per dire “che voce Kalsoum!”. L’operatore impassibile non fa una piega, compie movimenti sicuri e precisi con la camera a mano: uno per uno, fa un ritratto video ad ogni musicista, si muove con lentezza e senza esitazioni: un chirurgo. Si ferma sul volto di Kalsoum, ne prende quanto basta perché se ne possa cogliere l’energia, e avanti un altro.
I musicisti non si risparmiano e il pubblico nemmeno: si balla tanto. Le gambe, le braccia, le mani seguono il ritmo che incalza, vanno su e giù come sulle montagne russe: ogni canzone un giro, una corsa, che si ripete, che tutti ripetono con l’entusiasmo dei bambini al luna park. A Cagliari ci raggiunge finalmente Daouda Kote, coordinatore dell’associazione partner Ker Thiossane. Ora siamo davvero al gran completo.
Il giorno dopo davanti alla TV riviviamo tutto. Insieme ai musicisti ci godiamo questi dieci minuti di celebrità: l’indomani ci sarà da pensare a Perdaxius, la tappa per certi versi più importante del tour.
14-15 settembre, Perdaxius
Deggo Yëggo vuol dire armonia, ascoltarsi, condividere, agire insieme: “un giorno tutti saremo Deggo Yëggo!” dice Kalsoum. Beh, a Perdaxius questa volta sembra essere accaduto davvero. E non è mica facile essere Deggo Yëggo, stare uniti, aspettarsi, pazientare, organizzarsi, lavorare insieme, correre.
Noi lo sappiamo bene. Perdaxius è il nostro paese, dal 2007 sede dell’associazione Cherimus. Nel corso degli anni abbiamo lavorato con le scuole, la parrocchia, la biblioteca e le associazioni: ci conoscono praticamente tutti. 1500 anime distribuite in tante piccole frazioni nel mezzo di un’ampia valle: per noi è sempre l’esame più importante, Perdaxius, quello più difficile.
Questo intensissimo fine settimana è cominciato in realtà già in aprile, quando Emiliana ha raccolto tutte le associazioni di Perdaxius in un gruppo Whatsapp chiamato, per evitare qualsiasi dubbio in proposito, “festa Sardegna Senegal”.
L’obiettivo era di fare una festa che mettesse insieme non solo la musica, sarda e senegalese, ma anche la cucina e il modo di stare insieme. Tra le tante difficoltà e dopo lunghe e appassionanti riunioni, ha preso forma un Deggo Yëggo tutto perdaxino, una squadra affiatata composta da Su Nuraghe, Pantagus, ASD la casa del sorriso, ASD Perdaxius calcio, Gianni Nocco con i suoi giogus antigus e il Comitato delle feste del paese.
Il gran giorno è finalmente arrivato. La cucina della sede di Cherimus si trasforma in un vero e proprio laboratorio culinario per preparare una degustazione di specialità tipiche senegalesi e sarde da offrire al pubblico durante il concerto.
Kalsoum prepara la fataya, un piccolo panzerotto di carne da gustare con una salsa a base di cipolle, insieme ai volontari di Pantagus e della Casa del Sorriso. Su Nuraghe cuoce alla brace le salsicce di pecora e ritira il pane fragrante appena uscito dal forno Garia di Perdaxius. Nel mentre sono in fase di preparazione anche i ravioli fritti, dolci ripieni di mandorle o di ricotta, il bissap, una bevanda dolce ottenuta dall’infusione di foglie di ibiscus e, non poteva certo mancare, il caffè Touba, speziato e zuccherato proprio come a Dakar.
Che non sarebbe stato un concerto come gli altri, lo si capisce subito. Alberto Balia, mitico chitarrista di Santadi, ci è venuto a trovare. I musicisti lo accolgono subito sul palco, e lo invitano a suonare con loro. Alberto si era esibito insieme ai Chadal a Perdaxius esattamente 8 anni fa, durante la tournée del gruppo, in una calda domenica d’estate.
Per un’ora e mezza siamo davvero tutti Deggo Yëggo. Le associazioni sono in piazza insieme, lavorano spalla a spalla. Qualcuno fa presente che non è mai successo prima, che forse ci voleva un progetto del genere, una festa tra Sardegna e Senegal. Nel momento storico che stiamo vivendo non è cosa da poco.
Balia chiude il concerto con un medley di brani dei Chadal. Ci sentiamo ancora tutti lì, 8 anni dopo. La musica di quel concerto d’agosto non è mai andata via. È rimasta nei muri delle case ed è ancora viva sotto la nostra pelle. Tutti in piedi per i saluti finali: il pubblico applaude, Balia sorride a fianco dei Deggo Yëggo, sempre più sciolti e affiatati sul palco. È una bellissima foto di gruppo.
15 settembre 2019: anche la musica di Deggo Yëggo non se ne andrà mai più via da qui.
16 settembre, Semestene
“Su foghíle” in sardo logudorese significa focolare, il cuore della casa, dove ci si incontra, dove si trasmette la conoscenza. Così Antonio e Giorgia spiegano il nome del loro progetto, nato nella piccola realtà rurale di Semestene. Il loro lavoro mette al centro gli abitanti e il loro bagaglio di saperi antichi, oggi considerati irrilevanti, superflui, buoni per farci un museo per i turisti. L’obiettivo di Foghiles è di riappropriarsi di questo patrimonio e di usarlo di nuovo come lingua viva, come forza propulsiva della comunità.
Ogni anno Foghiles organizza il festival “Foghiles Encounters: incontri e sperimentazione nello spazio rurale”. 10 giorni di workshop, incontri, concerti, performance dove Semestene si apre al mondo ospitando anche progetti nati e cresciuti nelle tante realtà rurali della Sardegna. Cherimus e i Deggo Yëggo non potevano mancare. Eccoci di nuovo in viaggio, da sud a nord, nell’abbraccio caldo del pomeriggio.
Arriviamo a Semestene nell’ora più bella del giorno: la luce dorata abbaglia i dorsi delle colline, i tetti, la guglia appuntita del campanile, in stile gotico catalano. Con Kalsoum, Pape Diop, Pape Ndiaye ci inoltriamo per le strade deserte del paese. Il portone della chiesa è chiuso, non c’è nessuno per quelle vie dal selciato perfetto. Le case sono apparentemente senza vita, la brezza trasporta quella magia propria dei sogni. Pape Diop sorride e si chiede anche qui dove siano finiti tutti. Lascio per un attimo i musicisti in piazza e vado alla ricerca di qualcuno. In una stradina incontro Chiara, già conosciuta tempo prima a Cagliari. Mi accompagna al cortiletto segreto di Foghiles, un angolino accogliente di mondo, disabitato ma ancora per poco. La tavola è già apparecchiata tra le fronde degli alberi; al lato una cucina è in piena attività con tante pentole a bollire per la cena. Tutto è già pronto per la gran festa.
Il concerto è il quarto della serie e si sente. Il gruppo ormai rodato e senza sforzo fa quello che vuole dei brani, si diverte, inventa, diverge, volteggia. La musica corre via di filato, con il pubblico che dopo aver ballato, battuto a ritmo le mani, ne vorrebbe ancora e ancora. Concerto dopo concerto l’intesa dei musicisti è cresciuta, la loro musica si è intrecciata indelebilmente.
17 settembre, Cagliari
Siamo in tanti, stretti in un bar vicino al conservatorio di Cagliari. Le facce sono distese distese. Da poco è terminato l’ultimo concerto dei Deggo Yëggo il sesto. Il cerchio aperto a Dakar il 29 di giugno si chiude qui, per adesso almeno. Nessuno pensa davvero si sia chiuso per sempre. Si brinda alla conclusione dell’avventura con aranciata, Cola Cola, birra, spritz, pizzette e salatini.
Ai tavolini i musicisti sono tutti vicini di sedia. Il loro rapporto si è stretto, giorno dopo giorno, anche se Pierpaolo e Massimo non parlano il francese, unica lingua ponte tra tutti noi. Kalsoum dice che con Massimo e Paolo è come stare in famiglia. Musicalmente e umanamente c’è un grande rispetto e questo si è visto in tutti i concerti. C’era sempre spazio per tutti, nessuno prevaricava, ognuno si sosteneva. Si è sentito anche qui al conservatorio, luogo per eccellenza dell’educazione musicale. La sala era gremita di studenti, musicisti e semplici appassionati. Anche in questa occasione Daouda ha chiamato tutti sul palco per il ballo tondo: Venite a ballare! Esclamato coraggiosamente in italiano. Tanti del pubblico hanno partecipato al ballo, chi danzando con maestria, chi invece improvvisando, chi perfetto e chi impacciato. Ma il cerchio girava lo stesso, talvolta schiacciandosi, tanto poco era lo spazio, il cerchio non si fermava mai.
Per strada sembra già notte, i musicisti si salutano commossi, domani è il giorno della partenza dei senegalesi, da non credere. È il momento degli ultimi selfie: Pape Diop, Pape Ndiaye e Kalsoum ne hanno fatti tantissimi con tutte le persone che man mano incontravano lungo il percorso: con la famiglia di Emiliana, quella di Pierpaolo, quella di Massimo, ogni momento era buono per immortalare un incontro, una faccia sorridente; ricordo d’altra parte anche i selfie che alcuni ragazzini a Cagliari hanno fatto con Pape Ndiaye, forse per il suo portamento da star della musica, quale poi è in Senegal. In una settimana e mezza abbiamo viaggiato tanto, e non solo geograficamente, siamo stati accolti da tante diverse comunità, abbiamo vissuto vere e proprie immersioni in mondi diversissimi tra loro. Un concerto non è mai stato solo un concerto ma un momento di condivisione profonda.
Perdaxius, inverno 2019
Mentre scrivo, il 4 gennaio 2020, l’album con le tracce audio registrate a Dakar è in corso di lavorazione. Presto sarà pronto a trovare il suo spazio a girare dappertutto, ad esistere nelle orecchie di più persone possibile, di parlare di uno scambio musicale, umano, culturale possibile, anzi necessario, bello.
Deggo Yëggo si fonda sul nervo scoperto dell’incontro di due comunità. Entrambe abitano lo stesso territorio ed una delle due è fortemente discriminata. La comunità senegalese è il più vasto gruppo extraeuropeo presente sull’isola, lo è da anni, ma ancora la presenza di una comunità nera con una religione e una cultura diverse dalla maggioranza della popolazione sarda – e italiana – è vista con sospetto e paura, ed è spesso osservata con le lenti del pregiudizio.
Deggo Yëggo vuole contribuire a mettere in crisi paure e pregiudizi attraverso la musica, una delle cose più preziose e identitarie della cultura sarda, il suo fiore all’occhiello. Condividere e intrecciare questo patrimonio con quello di un’altra cultura presente sul territorio ma ancora nascosta, invisibile ai più, può essere uno dei grimaldelli per ingannare la serratura e spalancare una porta chiusa da troppo tempo.
L’accoglienza è stata calorosa e bella, quasi sempre. I Deggo Yëggo sono stati investiti dall’accoglienza e dalla generosità sarda, a colpi di piatti prelibati, dolci belli come ricami, tanto tempo passato a tavola.
Durante la turnée ho fatto più volte attenzione a non scuotere troppo quella bella superficie di accoglienza. Avevo quasi paura di metterla alla prova. Non potevo non pensare a tutti gli episodi di intolleranza, di sospetto, di silenziosa esclusione, di pregiudizio, di paternalismo, di pietismo, vissuti nel corso degli anni. Il razzismo appare in forme spesso camuffate, apparentemente innocue, semitrasparente tra le righe di uno scherzo, di un commento, di una battuta. Il razzismo in Italia striscia nel linguaggio che parliamo tutti i giorni da quando cominciamo a parlare: dalla televisione ai giornali, dalla scuola alla famiglia, infilato nell’arte e nella letteratura stessa che studiamo e celebriamo. Smontarlo costa troppo a quanto pare, più facile negare, minimizzare, riderci sopra. Smontarlo costa attenzione e lavoro, costa fatica spesa ad ascoltare la voce di chi purtroppo il razzismo lo vive tutti i giorni. Costa fatica spesa a capire da che parte stanno i privilegi e quale sia la propria posizione nel momento in cui si parla. Tanto lavoro per non cadere in quella stessa multiforme trappola.
Fare il bilancio di questa tournée è difficile perché il progetto è più vasto di quei giorni passati insieme, è più vasto dei mesi e delle settimane che abbiamo dedicato a renderlo possibile. Questa piccola tournée ha coinvolto direttamente le comunità locali, gli abitanti dei paesi, le associazioni, le autorità, il tessuto vivo della Sardegna, sia urbano che rurale. Le feste e i concerti hanno creato una rete che prima non esisteva. E questo è un piccolo tesoro da conservare e da crescere. I musicisti hanno creduto nel progetto e si sono spesi con generosità in uno scambio autentico e profondo nonostante le difficoltà e le ristrettezze economiche.
Al progetto manca ancora una parte indispensabile: il confronto diretto e la partecipazione attiva delle comunità senegalesi che abitano l’isola. Questo sarà il primo passo di un prossimo progetto di tournée musicale.
Ci sarà bilancio se avremo la forza di dare continuità e complessità al progetto. Se saremo disposti a crescere come persone, come artisti e come comunità, avremo di fronte a noi un lungo viaggio con un tracciato aperto tutto da inventare, e tanta musica sulla quale imparare a ballare.