Come nasce Zeinixx?
Dieynaba Sidibé nasce il 2 luglio del 1990, Zeinxx invece nasce nel 2008, anno in cui ho iniziato a fare i graffiti. Da 11 anni sono nel campo dell’hip -hop e mi occupo di graffiti di slam, rap e canto. Tutto è cominciato con la pittura. Ho sempre amato essere in contatto con la pittura, avere la pittura sulle mani, dipingere e lavorare su delle tele; era qualcosa che mi piaceva molto sin da quando ero adolescente. Un bel giorno ho scoperto i graffiti e sono andata ad imparare questa tecnica da “Africulturbain” dove ho conosciuto Grafixx, famoso in quel periodo per i suoi graffiti: era la fine del 2007. L’ho incontrato e gli ho detto: “Buongiorno, vorrei imparare a fare i graffitii!” Lui è rimasto sorpreso: ero la prima ragazza interessata ai graffiti. Da lì ho imparato le basi e la storia della cultura hip hop. Sono stata la prima ragazza a fare i graffiti in Senegal e sto continuando su questa strada.
Quale è stata la tua prima opera d’arte o progetto artistico?
Il mio progetto risale al 26 febbraio del 2008 o 2009; è la stata la prima volta che ho affrontato un muro, anche se non era nemmeno un vero muro, ma un muro mobile, cioè una tela molto grande messa davanti a un muro. È stato durante la Urban Session organizzata da Africultururbain: quella è stata la prima volta che ho toccato un muro con un pennello, ma la prima volta che veramente ho potuto lavorare su un muro tutto mio è arrivata negli anni successivi.
Che cosa pensa la tua famiglia della tua carriera? Hai il loro supporto?
Che bella domanda! (ride) Quando si parla di famiglia è un po’ difficile, soprattutto quando fai parte di certe etnie; per esempio noi siamo Peul, e non conosciamo i graffiti e tutto quanto. Già vedere che uno dei figli vuole fare l’artista è un problema, ma è ancora peggio se sei una ragazza e dici che vuoi fare dell’arte ed è ancora peggio se vuoi fare hip hop, una cultura che è stata molto marginalizzata. Fino a 5 – 6 anni fa quando chiedevo ai miei genitori che cosa pensassero di chi facesse rap, perché nell’hip hop fanno tutti rap, mi rispondevano che per loro era un ambiente di malviventi, di drogati e cose così. Questa è la percezione generale per cui puoi immaginare in questo contesto quanto può essere difficile per una ragazza entrare in questo mondo, evolversi e soprattutto lasciare un segno. Per me è stato particolarmente difficile con mia madre che non ha mai capito la mia voglia di fare graffiti e slam e mi ha sempre detto: “il giorno che ti vedo davanti a un muro a fare graffiti ti ammazzo”, ma poi mi ha lasciato fare. Era così. Dal suo punto di vista i figli devono diventare ingegneri o medici e fare i mestieri migliori e non posso prendermela con loro. Piano piano hanno capito che era la strada che avevo scelto e adesso quando parto per un lavoro è mia madre che mi trascina la valigia e mi accompagna in aeroporto. Si è trattato di vincere una battaglia psicologica: qua non si litiga con la famiglia direttamente e apertamente. Devi affrontare una battaglia psicologica e vincerla ogni volta; si vincono le battaglie ma non per forza la guerra ogni volta. La famiglia è così (ride).
Ci sono degli artisti che hanno ispirato e ispirano il tuo lavoro?
Quando ero piccola volevo diventare come Leonardo da Vinci, Van Gogh o come Pablo Picasso; mi vedevo diventare grande e dire che avevo firmato qualcosa di importante. Quando Zeinixx è nata, nel 2008, ho comunque continuato a ispirarmi a Leonardo, anche se è diametralmente opposto ai graffiti. Quello che mi piace di lui è che è interdisciplinare e multidimensionale e mi sono detta che se lui lo era perché non potevo esserlo anche io? Questa ispirazione mi ha spinto a fare rap, hip hop, slam, graffiti e anche quando faccio decorazione di interni non voglio mai mettermi dei limiti, voglio sempre uscire dalla mia zona di comfort e non voglio fermarmi dove le persone pensano che io mi fermerò. Se c’è un’artista grazie alla quale, o per colpa del quale, amo la musica questa è Oumou Sangaré, che ascolto da quando ero piccola. Non capisco una sola parola di quello che canta, ma posso cantare ogni sua canzone dall’inizio alla fine anche perché quando ero piccola ogni volta che mio padre andava in Mali o all’estero faceva sempre in modo di portarmi una cassetta. Nello slam invece l’ispirazione è Matador, che ha portato lo slam in Senegal. Prima lo slam non lo conosceva nessuno, poi lui è stato in Belgio con “Africultururbain” ed è tornato in Senegal con questa forma di poesia che nessuno aveva mai sentito. Ci chiedevamo tutti: ma cosa sta facendo? Ci ha detto che quello era lo slam e ce lo ha insegnato. Adesso dappertutto ci sono dei poeti che fanno slam, ci sono dei club in tutto il Senegal. Il Senegal ha addirittura vinto la coppa d’Africa di slam quest’anno. Sono questi gli artisti che mi hanno spinto ad andare avanti e che continuano a ispirarmi.
È difficile essere l’unica artista donna che si occupa di street art a Dakar? Come ti senti rispetto a questo?
Oggi non sono più la sola artista a fare graffiti. Fino al 2105 sono stata la sola e la prima a fare graffiti in Senegal, poi ce ne sono state anche altre però piano piano si ritirano, non c’è costanza; un’artista visiva invece la vedi che comincia, che continua, si evolve e fa le sue mostre i suoi progetti. Con i graffiti non è così, non so come te lo posso spiegare. Quando ho iniziato io, per esempio, era un problema perché era un ambiente di soli uomini. Per esempio sono stata invitata a dipingere un muro insieme ad altri 14 artisti: erano tutti uomini e io ero la sola donna del gruppo. La gente che veniva a vedere la mostra non pensava di avere di fronte 15 artisti, ma 14 artisti e una donna e questo mi ha creato dei problemi perché le persone mi cercavano per farmi delle domande in un modo aggressivo. Mi vedevano davanti al muro e mi venivano a dire “ah sei una donna e dipingi”: questo è aggressivo. Aggredire una persona che ha come solo proposito quello di esprimersi attraverso l’arte e di condividere quello che fa, di far venir fuori sé stessa e ricordarle invece che è una donna e non un’artista… Perché una donna non dovrebbe dipingere? Da quel punto di vista è stato difficile, ma non ho mai vissuto questa emarginazione perché tutti gli artisti hanno sempre avuto un profondo rispetto per me e mi hanno aiutato molto, non salendo mai su una scala o un’impalcatura al posto mio, ad esempio. Quando io devo fare un graffito su un muro e salire su una scala o un’impalcatura io lo so fare. E sai perché? All’inizio questi artisti quando dovevo dipingere uno spazio molto in alto mi dicevano “vai, Zeinixx, sali”. Se vedessi la scena da fuori diresti che questi ragazzi sono cattivi, scortesi, che mi stanno marginalizzando in qualche modo, ma non è così: se quella cosa spetta a te, la devi fare tu. Sia che noi ci siamo sia che non ci siamo, tu devi essere in grado di farcela da sola. Questo mi ha aiutare a fare molte cose. Nel 2018, in Australia, ho fatto un muro di 13 metri per 6 di altezza e l’ho fatto da sola, con una scala e un elevatore.
E comunque non sono più la sola. Per esempio recentemente abbiamo fatto un graffito sul muro del liceo J.F. Kennedy, durante la “Urban Women Week”, festival cento per cento femminile che organizziamo. È straordinario che siamo state noi, 5 donne a realizzarlo e ancora oggi la gente che passa non ci può credere che siano state delle artiste a realizzarlo: è questa la mentalità che deve cambiare.
In Italia, così come in altri paesi in Europa gli street artists non sono bel accettati dalle autorità. Come è percepita la street art in Senegal? Trovi degli ostacoli?
Negli Stati Uniti per esempio c’è un corpo speciale della polizia che si occupa dei writers; in Europa è molto raro vedere un writer realizzare un graffito in pieno giorno a meno che non si tratti di un festival o di qualcosa di autorizzato. In Senegal i graffiti sono tollerati. Da noi chi fa graffiti vuole comunicare qualcosa legato ad un aspetto sociale, socio-culturale, non lo si fa per il proprio ego. Non vado a scrivere Zeinixx su un muro solo per scriverci Zeinixx: no, non ha senso per noi. In quanto artista senegalese non ha senso andare mettere la nostra firma sul muro, non ha niente di logico. Quello che facciamo, lo facciamo per condividere la nostra arte con gli altri, l’idea è di mettere dei messaggi, dei messaggi forti che possano essere utili alla gente che passa ogni giorno accanto al muro che abbiamo dipinto. È come la poesia, è come il canto, è come le arti visive quando vuoi veicolare un messaggio, come un giornalista che scrive il suo giornale.
Quale è il messaggio più importante che vuoi diffondere attraverso il tuo lavoro?
I messaggi sono molti, ma il più importante per me riguarda i bambini. Ogni volta per me è importante dire ai gruppi di studenti che vado a trovare nelle loro classi e a cui mostro il mio lavoro, che hanno il diritto di scegliere che cosa vogliono diventare nel futuro. Spesso i genitori commettono lo sbaglio di scegliere al posto dei figli quello che devono diventare. Tu hai un bambino e appena cresce un po’ dici “ah, tu sarai un medico!”. Perché questo voler scegliere al posto dei bambini? Loro hanno il diritto di scegliere, di fare degli errori, di cadere, di risollevarsi, di cercare, di trovare, di dire: “questo non va, questo invece si, per cui faccio questo”. Bisogna solamente accompagnarli, e non ridirigerli verso qualcosa che un domani non hanno voglia di fare. La gente ha tendenza a vivere la propria vita e a voler vivere anche le vite dei loro bambini e su questo non sono d’accordo.
So che molti de tuoi lavori sono dedicati ai diritti delle donne. Mi puoi parlare di questo tuo importante messaggio?
Non mi occupo solo dei diritti delle donne in Senegal, ma nel mondo perché le donne abbiano tutti i diritti, che possano decidere, che possano dire sì o no. Perché non facciamo in un altro modo? Perché non partiamo dal principio che ci sono esseri umani e basta: al di là degli aspetti sociali, culturali e religiosi. La gente dovrebbe solo considerare tutti come esseri umani, che siano bambini, donne, uomini, ma che siano in primo luogo degli esseri umani, e penso che arrivati a quel punto non urleremo con forza, tutto il tempo, “i diritti delle donne!” “I diritti dell’uomo!” “I diritti dei bambini!” Li terremo presenti, ma non dovremo più gridarli come dobbiamo fare ora.
Intervista realizzata da Chiara Peru, ricercatrice dell’Università di Sassari, il 27 giugno 2019 a Kër Thiossane, Dakar